L'Isola dei Morti

Arnold Boëcklin, Die Toteninsel III, 1883
Un tempo avevo creato l'Isola dei Morti di Boecklin per soddisfare il capriccio di un consorzio di clienti invisibili, mentre le reminiscenze di Rachamaninov mi danzavano nella testa come spiriti di zucchero fondente. Era stato un lavoro piuttosto duro, tanto più ch'io sono una persona che pensa in formato eminentemente pittorico. Quando penso alla morte, cioè spesso, due immagini si alternano nella mia mente. Una è la Valle delle Ombre, un'immensa, oscura vallata che comincia tra due balze massicce di
pietra grigia, aprendosi su una sottile striscia erbosa la quale, illuminata dapprima da una luce crepuscolare, diventa sempre più buia man mano lo sguardo si perde nelle sue profondità, fino a confondersi con la notte eterna dello spazio interstellare, ma senza stelle, né comete, né meteore, niente: l'altra è il folle dipinto di Boëcklin, L'Isola dei Morti, il luogo che avevo appena intravisto nel mondo dei sogni. Fra le due, l'Isola dei Morti è la più sinistra. La Valle sembra emanare una vaga promessa di pace. Questo, tuttavia, potrebbe derivare dal fatto che io non ho progettato e costruito una Valle delle Ombre, affaticandomi e sudando intorno a ogni sfumatura, ogni struggente particolare di quel paesaggio grondante emozioni. Un tempo, invece, nel cuore di una specie di Eden, avevo eretto un'Isola dei Morti, la quale aveva lasciato tali brucianti cicatrici nella mia coscienza che non soltanto non avrei potuto dimenticarla mai più, ma io stesso mi ero immedesimato in lei quanto quell'isola si era immedesimata in me. Ora, quella parte di me stesso si era rivolta a me nell'unico modo che le era possibile, come rispondendo a una specie di preghiera. Sentivo che voleva avvertirmi, e che mi aveva fornito un indizio, un indizio che avrebbe assunto un suo significato col trascorrere del tempo. I simboli, per loro stessa natura, sono allo stesso tempo rivelatori e arcani, maledetti!

[Roger Zelazny, Metamorfosi cosmica, 1969]

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