Bleys: sulla Strada Nera

Intorno a me il terreno appare bruciato, scheletri di alberi carbonizzati, in lontananza qualche rovina fumante: il cielo è grigio di nuvole e fumo. Sono contento di aver scelto abiti scuri e un mantello nero, con il mio rosso abituale avrei dato assai nell’occhio! Vedo delle sagome volteggiare in cielo, grandi ali nere, un corpo allungato e fumo che esce dalla bocca. E ora fuoco, mentre uno dei draghi scende in picchiata verso un gruppetto di uomini che, al riparo dei resti di un casolare, spara con fucili decisamente poco efficaci. Poi il fuoco li avvolge. Il drago sbatte le ali e riprende quota. Un ronzio di motori e dalle nuvole sbucano piccoli aerei: biplani e triplani che si lanciano coraggiosamente contro i draghi. Sembra che ne feriscano uno che si allontana lanciando un grido lugubre, ma gli altri partono all’attacco. Più di un aereo precipita in fiamme, gli altri battono in ritirata. Cerco di procedere con cautela, mentre i draghi ancora volteggiano in cielo. Da dietro una collina all’improvviso una scia luminosa e poi altre ancora, una salva di missili! Queste sono armi ben più efficaci: missili terra aria a ricerca di calore. I draghi cercano di sfuggirgli volteggiando, cabrando, scendendo in picchiati, ma i missili li seguono inesorabili, troppo il calore dei loro corpi. Tutti i missili raggiungono il bersaglio, nel cielo si accendono sei palle di fuoco. Gli altri draghi si allontanano rapidamente, prima della prevedibile prossima salva. Da dietro la collina giungono grida che immagino di vittoria.

Mi avvicino cautamente. Ora sento il rumore di motori e sulla cima si stagliano tre automezzi a sei ruote. Sui due più grandi vedo montati i lanciamissili, quello più piccolo e veloce punta verso di me, lo scimmione a fianco del guidatore fa partire una raffica da un’arma automatica. Scimmione non è un modo di dire, i tre esseri a bordo del veicolo sembrano proprio delle grosse scimmie antropomorfe. Hanno tutti e tre caschi con visori a infrarosso, per questo mi hanno individuato facilmente! Rotolo a terra per evitare i colpi, sempre rotolando raggiungo una spaccatura nel terreno bruciato che mi nasconde alla loro vista. Sento il veicolo avvicinarsi e poi fermarsi e due di loro che balzano a terra. Lancio due shuriken in successione, li colpisco entrambi alla mano che impugna l’arma, poi balzo su e Goldswing fa il resto. Gli altri due automezzi stanno però puntando verso di me. Sbarazzo il posto di guida dal cadavere dello scimmione e parto a tutta velocità. Non è semplice guidare un mezzo che non conosco e che è progettato per guidatori decisamente più grossi di me e con proporzioni diverse tra braccia e gamba, ma in qualche modo me la cavo. Il mio mezzo è più veloce e rapidamente distanzio gli inseguitori.

Intanto il panorama è mutato, appena superato il ciglio di un’altura, questa si è trasformata in una duna, ora viaggio in un deserto. Procedo a velocità più moderata tra le dune, il sole è alto nel cielo, l’aria infuocata. In lontananza scorgo un polverone alzarsi, sembrano veicoli in avvicinamento. Tra la sabbia non c’è modo di nascondersi più di tanto, metto il mezzo in una posizione defilata, mi riparo dietro le alte ruote e aspetto.

È effettivamente una colonna di automezzi, distinguo delle jeep e delle camionette, tutti i mezzi sono armati di almeno una mitragliatrice. La colonna si ferma a circa trecento metri, evidentemente mi hanno avvistato. Parte una raffica che scava buchi nella sabbia a qualche metro da me. Sì, mi hanno proprio avvistato! Poi una voce grida: “Cessate il fuoco, è un umano!” L’uomo che ha parlato posa il binocolo con cui mi stava osservando, scende dalla sua jeep e si avvicina lentamente verso di me. Ha un mitra in mano ma tiene le braccia allargate e le dita lontane dal grilletto. È un uomo alto, robusto, in testa ha una kefiah kaki da cui spuntano capelli biondo rossicci, indossa una sahariana e pantaloni militari dello stesso colore. Oltre al mitra ha una pistola nella fondina e, particolare curioso, tiene infilato nella cintura un kukri di notevoli dimensioni. Arrivato a una cinquantina di metri: “Scusa, pensavamo fossi uno degli scimmioni, visto il veicolo! Io sono il capitano McFadden, Fergus McFadden, Long Range Desert Group. Con chi ho l’onore?” “Bleys di Ambra.” “Cioè, inglese, americano, francese?... Beh, l’importante è che non sei tedesco!” Poi, seguendo il mio sguardo,: “Ti piace il mio kukri? In passato ho lavorato con i ghurka…”

Fergus mi spiega che il suo reparto del Long Range Desert Group si è ritrovato in una missione un po’ troppo long range, finendo in questo pezzo caotico di miscuglio di Ombre. Ora il loro comandante, il colonnello Studdard è deciso a presidiare e assicurare “un’area bonificata” in questo spicchio di deserto respingendo le incursioni di quelli che loro chiamano scimmioni, di altri strani esseri che chiamano orchi nonché dai “tedeschi” anche se non è chiaro se siano proprio i tedeschi contro cui stavano combattendo loro nella Seconda Guerra Mondiale della Terra di Flora. Oltre ai suoi uomini ha radunato un certo numero di “sbandati”, guerrieri e guerriere, soldati dalle strane divise, ma anche gangster e bravacci vari: ha accolto tutti a condizione che fossero umani e non fossero… tedeschi. Ad ogni modo resto qualche giorno con loro, vado di pattuglia e partecipo a qualche scontro (cercando di non strafare), ho modo di ammirare le notevoli qualità umane e di combattente di Fergus.

Poi una mattina una pattuglia avanzata torna al campo base e dà l’allarme: qualcosa si sta avvicinando da est, anche se qua non è molto facile stabilire i punti cardinali, variano… Comunque in direzione del sole. Dopo circa un’ora avvistiamo una grande nuvola di polvere e poi coloro che la provocano. Sono una massa imponente di uomini, anzi più che altro ragazzi. Quanti sono? Migliaia. Avanzano lungo un fronte che si estende per chilometri. “sembra un’invasione di cavallette” commenta Fergus mentre li osserviamo col binocolo. Vengono avanti in silenzio con una luce folle negli occhi, i vestiti stracciati, armati di ogni tipo di armi bianche, anche di semplici bastoni. Molti innalzano sulle picche le teste di nemici uccisi, teste non solo umane. A guidarli una serie di santoni o sciamani o predicatori che lanciano urla, cantano e recitano forse preghiere per incitarli. Non che ce ne sia bisogno, la massa sembra procedere inesorabile. La pattuglia che ha provato ad avvicinarsi e a omunicare ha dovuto battere velocemente in ritirata: gli invasati non hanno minimamente risposto ai loro cenni, continuando a incedere minacciosi. Studdard dà ordine di abbandonare il campo, per attestarsi su una serie di dune più ad ovest per organizzare una difesa. I suoi uomini si preparano, alcuni visibilmente spaventati, ma in maggioranza sembrano ormai pronti a tutto, non si stupiscono più di nulla. La mossa di Studdard mi sembra inutile e disperata, cerco di spiegarglielo, ma ottengo solo la minaccia di essere messo agli arresti!

“Fergus, io me ne vado. Questa non è la mia guerra e secondo me non è nemmeno la vostra. Inutile partecipare a una carneficina che finirà male anche per voi.” Fergus si guarda attorno. Nella confusione del momento, alla spicciolata, qualche gruppetto si sta allontanando rapidamente, si tratta di “sbandati”, ma anche di qualche uomo di Studdard. “Forse hai ragione, e poi io neanche sono inglese. Finché si trattava di combattere i nazisti ok, ma ora… Vieni forse so dove scappare.”

Saltiamo sulla sua Jeep e Fergus parte a razzo, sembra avere chiara la direzione da prendere, anche se non so bene come faccia a orientarsi in quel eserto, fra dune che sembrano tutte uguali. La jeep corre in planata sulla sabbia lungo un avvallamento tra dune particolarmente alte, poi questo si restringe, diventa una gola sempre più angusta. In fondo alla gola si para di fronte a noi un muro di nebbia, Fergus rallenta appena e si infila deciso nella nebbia. Dopo poco la jeep comincia ballonzolare su un terreno accidentato, la nebbia si dirada rivelando, ai lati di quello che ora è diventato un viottolo, alberi alti e scuri. Il motore comincia tossire, pochi metri ancora e siamo fermi. “Sì, lo ha fatto anche l’altra volta” commenta Fergus. “Aiutami a nascondere la jeep tra gli alberi, ora si prosegue a piedi.”

Nascondiamo la jeep, coprendola con rami e arbusti e, a piedi, seguiamo il viottolo. A bordo abbiamo lasciato i mitra, Fergus mi ha assicurato che qui non funzionano, ma ha tenuto la pistola. “Ci sono affezionato…”, mi spiega, mentre procede cauto, una mano sull’impugnatura del kukri.

Camminiamo per una mezz’ora, poi il sentiero sbuca in una radura dove convergono altri sentieri e un paio dei quali abbastanza ampi da consentire il passaggio di carri. Proprio dove i sentieri si incontrano sorge una casa di legno a due piani, con tutta evidenza una taverna. Sotto una tettoia sono impastoiati dei cavalli e altre bizzarre cavalcature. Appoggiato a un carro fermo al lato della strada, una strano essere con quattro braccia e un volto caprino fuma una lunga pipa. Fergus mi guida all’ingresso della taverna. Appena entrati un gigante nerboruto con un naso rincagnato e una mascella prominente da cui spuntano due zanne, indica con fare imperioso le nostre armi e poi una rastrelliera. Dal bancone in fondo alla sala ci giunge la voce dell’oste: “Lasciate lì le vostre armi, è la regola della casa. Questa è zona di tregua. Non temete, nessuno ve le porterà via.” L’oste ha un ventre prominente, un viso largo e un sorriso affabile, ma lo sguardo determinato. “Stai tranquillo – mi dice Fergus – è così, io qui ci sono già stato. Non so bene perché e per come, ma questo posto è davvero una zona franca, ci arriva la gente più strana, ma non ci si scontra.”

In effetti ci sono avventori di ogni risma: guerrieri in cotta di maglia, due tipi con la pelle azzurra che indossano una sorta di tute spaziali, e anche quattro di quegli “scimmioni”. Una ragazza con giaco di cuoio e i capelli in lunghe treccine, seduta su uno sgabello, canta una canzone malinconica accompagnandosi con uno strumento a corde, un gigante simile a quello che ci ha accolti, sta sfidando a braccio di ferro un grosso guerriero vichingo, altri strani personaggi, a un tavolo, giocano a dadi. Ma l’atmosfera complessiva è calma e quasi sommessa. 

Fergus torna dal bancone con due pinte di birra e ci sediamo su due panche ad un lungo tavolo in fondo al quale un guerriero dall’aria annoiata sta ascoltando quelle che sembrano le farneticazioni di un vecchio. Lo guardo meglio, forse non è tanto vecchio, sembra un uomo invecchiato precocemente. Tra il grigio della barba e dei capelli si scorge ancora il biondo originario. Profonde rughe gli solcano il volto. Sulla testa una corona ammaccata. Il mantello e le vesti logore raccontano però di un antico sfarzo. “Un regno! – dice – Cosa non si fa per un regno. Io di certo ho fatto tanto per ottenerlo. Tanto sangue… Tanti tradimenti, amori ed amicizie distrutti. Ma l’ho avuto, il regno! Era mio! Che euforia, ma che peso! E così, le spalle si piegano, un fardello che ti schianta. E quanto odio intorno. Non puoi fidarti di nessuno, hai paura anche di assaporare un buon vino. E allora basta. Basta! Non l’ho voluto più il regno. Via! Via da tutto quello, dall’ansia, dalla paura, dalla responsabilità! Ma adesso? Adesso sto qua e tremo all’idea di varcare quella soglia, perché so che mi aspettano. In tanti non hanno perdonato, in tanti ancora, forse, temono il mi ritorno. E così, cosa mi resta? Non puoi fuggire il tuo destino…”

Guardo quell’uomo sconfitto. Mi alzo. “Vieni; Fergus, è ora di tornare a casa.” E Fergus: “Io non ho una casa.” “Posso offrirtene una”.

Bleys è tornato a Festa, Fergus, è a capo della sua Guardia. E a volte, anche ad Ambra, Bleys è stato visto in compagnia di un uomo alto e massiccio, dai capelli rossicci e gli occhi azzurri, il viso cotto dal sole, che si ostina a indossare una kefiah – kaki a volte, o bianca e nera – e una vecchia sahariana, sempre alla cintola un lungo kukri. “Il mio braccio destro.” Dice Bleys.

[Marco Bardella, 18 settembre 2020]


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